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Con i miei occhi sulla Balkan Route

20 Novembre 2019

Con i miei occhi sulla Balkan Route

“I prigionieri sanno quando saranno liberi… noi profughi, noi non lo sappiamo”
Nasser, 27enne – Siriano

di Nicolò Meschini

Bihać, cantone di Una-Sana nella parte nord occidentale della Bosnia, oltre le montagne che separano il paese dalla Croazia, vicino al parco naturale dei laghi di Plitvice. Paesaggi mozzafiato, distese infinite di foreste verdissime, fiumi e cascate, un paradiso per gli amanti della natura e dell’escursionismo.

Mi chiamo Nicolò, ho 26 anni e ho scelto di partecipare come volontario Caritas all’interno del progetto di Ipsia Ong in uno dei punti più caldi della Balkan Route, a Bihać. A causa della spettacolarizzazione mediatica della rotta Mediterranea, la guerra alle Ong e la necessità politica di costruire un nemico comune verso il quale distogliere l’attenzione dalle crisi italiane, la rotta Balcanica rimane ancora misteriosa e inesistente agli occhi di molti.

Dopo aver lavorato nel centro di accoglienza gestito dalla Cooperativa Kemay di Brescia, ho deciso di voler vedere con i miei occhi quel che accade in questa zona di transito al di là della frontiera con la Croazia, primo avamposto dell’Europa, trappola infernale per migliaia di persone.

Per dare un’idea dei numeri, dal 2018 sono transitate 40 mila persone in una cittadina che censisce 60 mila persona ad inizio 2013, delle quali la metà sono emigrate per motivi lavorativi. Bihać fa parte delle giungle europee insieme a Calais, Moria, Idomeni, Lampedusa e Lesbo, ma i media ancora non ne parlano molto. Attualmente in città si stimano dalle 3000 alle 5000 presenze, difficile dirlo con esattezza. I campi istituzionali gestiti dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazione (OIM o IOM in inglese) dell’Onu sono tre: il Borici, ex studentato divenuto campo per famiglie (361 persone, di cui il 40% bambini con famiglia[1], il Bira, ex fabbrica di frigoriferi, della capienza di 1500 persone, per la maggior parte single man (come vengono chiamati gli uomini che migrano in solitaria) con 1356 persone, di cui il 23% MSNA ed il 6% bambini in famiglia, e il Sedra, ex hotel ora campo per famiglie con 346 persone, di cui il 42% bambini in famiglia. Oltre ai campi gestiti dalle Nazioni Unite, esiste un terzo campo a Vucjack situato sulle montagne esattamente a ridosso del confine Croato, le cui presenze attuali stimate in base ai pasti distribuiti sono circa 600[2].

I numeri sono da considerare in maniera approssimativa, sia perché variano di giorno in giorno a seconda delle persone migranti presenti all’esterno dei campi e a seconda delle policy di gestione dei campi. Inoltre i numeri ufficiali sono difficilmente quantificabili perché il sistema di registrazione delle presenze non è chiaro. Ufficialmente chi abbandona il campo per più di 48 ore  (mentre la pratica per l’attraversamento del confine dura anche settimane) o perde il tagliando consegnato dalla IOM per garantirsi la possibilità di permanenza (sembra ironico ma viene chiamato Carta d’Identità nel gergo sul campo, rafforzando la creazione dell’identità di profugo), non viene riammesso. In pratica non essendoci un registro ufficiale delle uscite e degli ingressi, non si sa con certezza il numero altalenante in un momento preciso.

Per capire il processo che ha portato alla situazione attuale seguiamo gli eventi che hanno preceduto l’affluenza dei migranti in questa zona di transito.

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